Ancora cronologicamente dentro i cancelli del secolo XVIII, c'è un'affermazione di Alfieri che suona:
«(Livorno) mi piacque assai perchè somigliava a Torino» (21).
Il paragone
è importante. Livorno, appunto, è un'altra delle città italiane che godono, lungo il Settecento, d'un favore (e d'una fama) incontrastati (22).
A suo tempo - 1728 - Montesquieu ne aveva descritto le caratteristiche con parole, anche lui, quasi "torinesi", cogliendovi però, anche qualcosa che a
Torino non c'era. Dove a Torino si vedeva in particolare "poca gente per le strade", e ci si "annoiava" per assenza di vita sociale, Livorno è festosamente
e variamente popolata:
«Livorno dista 14 miglia da Pisa. E' una gran bella città, molto popolata e ben
fortificata. Le vie sono larghe, dritte, ben tracciate. La piazza è molto grande, e la città, ridente. Ci saranno quarantamila abitanti di tutte le razze:
Greci, Armeni, Cattolici, Protestanti, ma gli Ebrei arrivano a 6 o 7000, e sono fortemente protetti dal Governo» (23).
Ma Montesquieu cita Livorno, oltre che nel Viaggio in Italia, che è appunto del '28, anche nelle Lettere
persiane, che sono del 1721 - la cita, cioè, ancora prima di averla vista di persona: il che conferma, evidentemente, la gran fama che la città doveva avere
nei tempi. E' a Livorno, dunque, che sbarca Usbek, l'"arretrato" Orientale delle Lettere persiane, che così scrive all'amico Iben a Smirne (lettera
XXIII):
«Siamo arrivati a Livorno dopo quaranta giorni di navigazione. E' una città nuova, che
testimonia il genio dei duchi di Toscana, i quali di un villaggio paludoso hanno fatto la città più fiorente d'Italia (...) Vedere una città cristiana per la
prima volta è un grande spettacolo per un maomettano. Non parlo delle cose che colpiscono subito gli occhi, come la diversità degli edifici, dei vestiti, dei
principali costumi; fin nelle minime inezie c'è qualche cosa di singolare che io sento e non so esprimere»
(24).
Livorno, dunque, ha pressappoco la stessa popolazione di Torino, ed è, come Torino, una città nuova. Ma questa popolazione evidentemente vi è più addensata, e poi, è estremamente varia dal
punto di vista delle nazionalità. Per queste due caratteristiche soprattutto, che significano tutt'insieme vivacità commerciale e progresso (l'accenno al
"villaggio paludoso" che la città era una volta), e che, letteralmente parlando, richiamano altre celebri pagine per esempio di un Defoe, di un Addison o di un
Samuel Johnson su Londra
(25),
Livorno si configura come una tipica città illuministica - dove Torino potrebbe definirsi, invece, solo come una tipica città settecentesca.
Il che spiega, d'altra parte, non solo il tipo di "noia" torinese di Montesquieu, ma anche come mai, a Torino,
l'illuminismo "libertino" di un Casanova, per esempio, associ sistematicamente, a giudizi positivi dal punto di vista architettonico, giudizi piuttosto pesanti dal punto di vista civile (polizia bigotta, strade piene di mendicanti, ecc. - e
la stessa cosa accade al Malaspina)
(26).
Ciò non sarebbe mai potuto avvenire in una città come Livorno, ovvero, in una città illuministica.
E',
invece, proprio questa particolarità di Livorno che, come consente a Montesquieu di citare la città già solo sulla base di notizie indiziarie ma estremamente
precise da un certo punto di vista ("progressismo", oltre che novità, della fondazione, pittoresco crogiolo di nazionalità, fogge, costumi, linguaggi,
ecc.), cos' induce de Brosses a parlarne, in sede di quadro complessivo, addirittura più a lungo che di Torino. A de Brosses, Livorno si presenta,
intanto, con "le fortificazioni costruite e mantenute con incantevole eleganza" - e andrà di nuovo sottolineata questa "incantevole eleganza" attribuita a un
elemento che dovrebbe essere giudicato solo sotto il profilo militare. Ma de Brosses prosegue:
«Si
entra in città attraverso una via larga e lunga, tirata a squadra, sulla quale danno le due porte della città. Quasi tutte le vie sono fatte allo stesso modo,
allineate, con le case più alte nella parte sinistra della città, dove abitano gli ebrei; ma le vie più belle sono a destra, dove sono stati scavati canali,
pieni d'acqua di mare, come a Venezia, e costeggiati da viali da ambedue le parti. La via principale è interrotta da una piazza quadrata, vastissima, chiusa da un lato dalla casa di un commerciante, assai più bella del palazzo granducale
che le sta accanto, e dall'altro dalla principale chiesa cattolica. Questa chiesa è più simpatica di molte altre cattedrali che conosco, non foss'altro che
per il ricco soffitto dipinto e dorato, e per i suoi marmi di breccia viola. La maggior parte delle case della città erano dipinte a fresco, e doveva essere
spettacolo grazioso, ma la vicinanza del mare, nemico naturale di tutte le pitture, le ha cancellate quasi per intero»
(27).
A parte, dunque, qualche particolare (come l'ultimo - e d'altra parte, questa precaria pittura a fresco
la si doveva, evidentemente, al disgusto settecentesco per i mattoni nudi, posto che in mattoni, precisa de Brosses, era fatta l'"intera città"
(28),
Livorno piace a de Brosses per le stesse ragioni di Torino, ma anche per lui Livorno ha qualcosa in più: quell'atmosfera frequente, varia ed eccitante, che, se definisce illuministica una città, definisce simultaneamente illuministico
anche lo spirito che mostri di apprezzarla in modo particolare (29)
«Non sarebbe facile dire che razza siano gli abitanti di questa città: si fa prima a dire che sono di tutte le razze d'Europa e d'Asia; perciò le vie sembrano una vera fiera di
maschere, e la lingua quella della torre di Babele; tuttavia la lingua corrente è il francese, o per lo meno è tanto comune che può passar per tale. La città è estremamente popolosa e libera»(30).
E illuministica più che mai, è l'interpretazione di Livorno che, dal canto suo, dà Sade nel 1775:
«Livorno è il porto di mare più notevole e anche unico della Toscana. Si tratta di una città nuovissima, ma nella quale il commercio e il credito sono già singolarmente solidi (...) E' un porto fra i più sicuri fra i più commerciali del Mediterraneo. Gli ebrei che vivono qui in foltissimo numero hanno un notevole commercio»
(31).
Nel 1786 il nostro Malaspina dice della città che è "bello vedervi il continuo
movimento d'ogni individuo, tutti occupati in qualche profittevole oggetto, e
giammai veruno distratto e ozioso"
(32). L'osservazione, poi,
secondo cui non ci sono mendicanti a Livorno, va naturalmente messa in relazione
all'osservazione contraria di Casanova a Torino, appena ricordata.
Nel 1796, anche se l'osservazione è condizionata dal fatto di avvenire in piena
invasione napoleonica della nostra Penisola, al barone svedese P.O. von Asp (che
risale l'Italia dal Sud, e che ci viene fatto conoscere, nel 1981, da Francesco
Petroselli
(33)
, livorno appare molto movimentata - lungo la strada principale,
ai numerosi caffè, siede tutto il giorno una folla variopinta di ogni nazione:
"europei, greci, armeni, maomettani, mescolati a soldati francesi malvestiti che
si dilettano soprattutto di gelati". E peraltro, certe caratteristiche Livorno
le deve conservare a lungo, se la città, ancora in pieno Ottocento (1844),
suggerisce a Charles Dickens una delle pagine non a caso più polemicamente
"illuministiche" delle sue Pictures from Italy
(34) (anche fatto salvo l'acceso
"antipapismo" che anima il libro):
«Livorno (celebre per la tomba dello Smollet) (...) è città prospera, attiva e
pratica, dove l'ozio è scacciato dal commercio. Gli ordinamenti stabilitivi in
relazione ai traffici ed ai negozianti, sono assai liberali e illuminati, e la
città naturalmente se ne avvantaggia (...) E' indice di progresso la ferrovia
fra Livorno e Pisa, la quale è ottima ed ha già cominciato a meravigliare
l'Italia, stabilendo un precedente di puntualità, di ordine, di semplicità nei
servizi e di perfezionamento, che costituisce il più pericoloso ed il più
eretico degli oggetti di stupore. Quando la prima ferrovia italiana fu aperta al
pubblico, in Vaticano si deve essere indubbiamente provata una leggera
sensazione come di terremoto».
Da un punto di vista storico, verrebbe fatto di pensare che la indiscutibile
marginalizzazione di Livorno dopo simili successi settecenteschi (e, in parte,
ancora ottocenteschi), sia stata, se non proprio causata, certo favorita e
accelerata dall'Unità d'Italia - un pò come accadrà a Trieste all'indomani del
dissolvimento dell'Impero Asburgico, e dell'annessione all'Italia. Al contrario,
Torino, il cui rigoroso stile "settecento" non convince mai del tutto il
progressismo illuminista, troverà proprio nell'Unità il suo momento di lancio
anche internazionale - il che del resto si spiega alla perfezione solo che si
tengano presenti gli interessi prevalentemente piemontesi in base ai quali viene
progressivamente orientato tutto il nostro moto risorgimentale.
(21)
VITTORIO ALFIERI, op. cit., p.111 (epoca III, cap. I).
(22)
CESARE DE SETA, op. cit. in particolare la nota n.3 p.161 e il brano di Lord
BURLINGTON, del 1714, riportato a p. 164.
(23)
MONTESQUIEU, op., cit., p.132
(24)
MONTESQUIEU, Lettere persiane, trad. it. G.ALFIERI TODARO FARANDA,
Milano, Rizzoli, 1952, p.45.
(25) vedi FRANCESCO IENGO, Scrittori e
metropoli fra Illuminismo e Romanticismo, Roma, de Feo, 1983, pp. 50-51 e 54 in
particolare. Quanto all'apprezzamento caratteristicamente illuministico per la
popolosità urbana, va tuttavia detto che qualche voce in contrario emerge nel
Settecento stesso, specificatamente nell'area della sensibilità fisiocratica,
voce che, anche stavolta, non sarà certo da considerarsi come un "prodromo" del
Romanticismo, ma andrà sicuramente tenuta presente in vista d'una comprensione
storica magari delle romantiche città del silenzio (cfr. ROSARIO PAVIA, op. cit.
pp.37 e 40 in particolare).(26) GIACOMO CASANOVA, op. cit., vol.
III, p. 45 (cap. XXVIII). Nè la memoria viene modificata da un successivo
soggiorno torinese
(nel 1744 - cfr. vol. VII, p.240 - cap. LXXXVII): "Andammo a passeggiare
per il bel viale che dà verso la fortezza, e vi notai una quantità di belle
donnine. Fra le città d'Italia, Torino è quella nella quale il bel sesso ha
tutti i fascini che l'amore in esso può desiderare; ma la polizia di Torino, è
più fastidiosa che altrove (...) Vi sono spie dappertutto. Quindi, per potervi
godere di una certa libertà, si devono usare grandissime precauzioni". Quanto a
Malaspina, osserva D'ANCONA (op. cit. p.278) che a Torino "gli parve grandissimo
il numero dei mendicanti".
(27) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p.
225.
(28) Ibid.
(29)
Mi sembra limitativo il seguente giudizio di ROSARIO PAVIA (op.
cit. p.127): "La cultura di de Brosses è quella del secolo precedente. Egli è
ancora immerso nell'alterigia, nell'erudizione e nella leggerezza del grand
siècle". Se questo può essere vero per certi atteggiamenti del Novecento, non lo
è sicuramente per quanto riguarda il suo gusto urbano. che mi pare perfettamente
allineato a quello degli Illuministi - del resto, anche per CESARE DE SETA (op.
cit. p.205) de Brosses appartiene all'"intelligencija dei lumi", in cui "una
religione della scienza sembra aver sostituito la devozione per le reliquie
sacre".
(30) CHARLES DE BROSSES,
op. cit., p.223
(31) SADE, op. cit., p.77
(32)
ALESSANDRO D'ANCONA, op. cit., p.278
(33)
FRANCESCO PETROSELLI, Il Meridione nel 1796. Dal Diario di viaggio di un
diplomatico svedese, in Misure critiche, 1981, XI, 40-41, pp.53-80.
(34) CHARLES DICKENS, Impressioni
d'Italia (1844-45), trad. it. LUIGI CANESCHI, Lanciano, Carabba, 1911, pp.
16-17
Theorèin - Aprile 2006